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Friday, March 24, 2023

Deutsche Bank, il crollo innescato dalla scommessa al ribasso dei fondi Usa sulle banche tedesche - Corriere della Sera

Non ci sono complotti, né oscuri personaggi della finanza che tramano nell’ombra. Ma il crollo in borsa di Deutsche Bank, che ha trascinato giù gli indici europei, è alimentato da un misto di ingredienti recentissimi e radicati negli anni. E né gli uni né gli altri sono frutto del caso, quanto piuttosto di una serie di lezioni stranamente dimenticate del grande crash del 2008. La fine di Lehman per esempio non ha insegnato che aggiungere complessità ai mercati, lasciando loro opacità, avrebbe creato una miscela a momenti esplosiva. È esattamente quanto è accaduto ieri. L’azzeramento dei bond subordinati e convertibili di Credit Suisse, lo scorso weekend, ha fatto crescere per tutte le banche europee i rendimenti da offrire agli investitori per poterne emettere di nuovi.

Subito il mercato si è concentrato su chi avrebbe dovuto farlo a breve: due fragili banche locali tedesche, Deutsche Pfandbriefbank e Aareal Bank, avevano i loro bond in scadenza. Poiché le due avrebbero dovuto comunque rifinanziarsi emettendo altri titoli dello stesso tipo (i cosiddetti “coco”), alcuni hedge fund americani hanno previsto che Pfandbriefbank e Aareal Bank avrebbero preso un’altra strada: invece di rimborsare i detentori, avrebbero trasformato i titoli in obbligazioni perpetue (era comunque legale, in base ai contratti). Ed è ciò che le due hanno fatto perché il costo per loro era comunque minore di quello di emettere nuovi bond. Non era la prima volta che facevano così, quelle due piccolissime banche. Ma, con la ferita dei bond di Credit Suisse ancora aperta, alcuni hedge fund americani hanno previsto che la mossa dei due istituti avrebbe spaventato il mercato. Per questo hanno preso di mira Deutsche Bank, prevedendo che la tensione si sarebbe scaricata sui suoi titoli. Giovedì gli hedge fund hanno costruito posizioni ribassiste sulla prima banca tedesca, per guadagnare vendendone le azioni senza possederle.

Sempre in serata di giovedì, hanno iniziato a comprare “credit default swap” (Cds) della stessa Deutsche, il cui prezzo si è impennato (vedi il “Corriere” di ieri). I Cds sono derivati contro il default paragonabili a polizze sulla vita di un’impresa, ma con una differenza: è possibile comprare quei derivati senza avere titoli dell’impresa, un po’ come se ci si potesse assicurare sulla vita di un altro. Quando si è diffuso il nervosismo per i coco delle banche tedesche, per gli hedge fund è arrivato il jackpot. Hanno guadagnato dall’aumento del prezzo dei derivati di assicurazione sul default di Deutsche (in parte da loro provocato). Poi hanno guadagnato anche dal crollo dell’azione della grande banca tedesca, quando il mercato ha creduto di capire dalla quotazione in aumento dei Cds che qualcuno temeva il fallimento di Deutsche stessa. La lezione dimenticata del crac Lehmanriguarda proprio quei derivati di assicurazione sui default.

Già nel 2008 fu chiaro che lasciarli detenere a chi non possiede bond o azioni di un’impresa può facilitare pericolose speculazioni al ribasso. Successe allora, i regolatori non proibirono nulla, sta riaccadendo adesso. A meno che, naturalmente, le autorità europee nei prossimi giorni capiscano la minaccia e introducano un divieto. Ma questa non è l’unica lezione rimossa di Lehman, nella serie di crash delle ultime due settimane. L’elenco dei conflitti d’interesse è grottesco, soprattutto negli Stati Uniti da dove il contagio è partito da Silicon Valley Bank (Svb) e Signature Bank. A Washington nel 2018 si decise per esempio di esentare di fatto dalla vigilanza le banche fino a 250 miliardi di attivi. Poi Barney Frank, che alla Camera dei Rappresentanti fu co-autore dei vincoli bancari post-Lehman, divenne lobbista per esentare da quegli stessi vincoli istituti come Signature (nel board della quale sedeva, ben pagato).

Quanto a Larry Summers, ex consigliere della Casa Bianca nel 2008, è andato oltre: ha chiesto al governo di rimborsare tutti i depositi multi-milionari di Svb, senza spiegare che è consulente di un fondo che ha i soldi delle sue start up in quella banca. Né potevano mancare le agenzie di rating e i revisori dei conti: Moody’s assegnava a Svb un rating elevato, Kpmg assicurava che i bilanci erano a posto due settimane prima del crac.

Del resto il Ceo di Svb, Greg Becker, sedeva nel consiglio della Federal Reserve di San Francisco che avrebbe dovuto vigilare sulla sua banca (come Dick Fuld di Lehman che sedeva nel board della New York Fed). Becker poi ha venduto le proprie azioni della banca due settimane prima di fallire; ha aumentato i compensi dei manager mentre accresceva le scommesse a rischio; ha triplicato i prestiti ai top manager negli ultimi tre mesi, quasi ci fosse fretta di spartirsi le spoglie. E su tutto la vigilanza taceva, benché la Bank of England avesse scritto alla Fed di San Francisco dando un allarme caduto nel vuoto. È come se il 2008 non avesse davvero insegnato nulla. Ma non è stata stupidità. Forse solo avidità.

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