L’era delle politiche monetarie ultra-espansive, dei tassi d’interesse a zero (o addirittura negativi), e dell’acquisto massivo di titoli di Stato praticate dalle Banche centrali di tutto il mondo nell’ultimo decennio, potrebbe essere giunta davvero alla fine. Dopo le ultime riunioni dei board della Banca Centrale Europea, della Federal Reserve e della Bank of England, nelle quali i banchieri centrali dell’eurozona, degli Stati Uniti e del Regno Unito hanno annunciato l’imminente tapering dei loro rispettivi programmi di Quantitative Easing, l’impressione è, infatti, quella che la svolta sia davvero dietro l’angolo.
A dire la verità, la prima Banca centrale di un paese sviluppato ad aver avviato una stretta monetaria è stata quella norvegese, che nel suo meeting di settimana scorsa ha aumentato i tassi di interesse allo 0,25%, dallo 0,0% precedente. In precedenza, altre Banche centrali di paesi in via di sviluppo, come quella brasiliana, pachistana, ungherese e paraguaiana, avevano preso una simile decisione.
La paura dei banchieri centrali
La normalizzazione dell’economia globale, che sta facendo osservare un aumento più forte delle attese sia del prodotto interno lordo che dell’inflazione nelle varie macroaree, suggerisce una conseguente normalizzazione prima del previsto delle politiche monetarie, nonostante molti economisti di area liberale ritengano che questa normalizzazione stia avvenendo in ritardo rispetto a quanto dovrebbe essere. La paura dei banchieri centrali è quella che un eccessiva attesa nell’effettuare l’intervento restrittivo possa far sfuggire di mano il controllo del tasso d’inflazione e dell’espansione del credito, due minacce che rischiano di creare notevoli danni tanto all’economia reale che ai mercati finanziari internazionali.
Con i costi di spedizione quintuplicati rispetto al 2019, l’aumento esponenziale dei prezzi registrato sui mercati delle commodities, la mancanza di semiconduttori che ha già messo in ginocchio la produzione in molti segmenti di business – in primis quello dell’automotive – e il rischio che l’inflazione da materie prime si possa trasferire presto ai prezzi al consumo, le Banche centrali hanno davvero ben poche alternative alla canonica “stretta monetaria” per tentare di tenere sotto controllo la situazione. Con il rischio, certamente, che la stretta monetaria possa creare un rallentamento della ripresa, per effetto di una riduzione degli investimenti. A tale riguardo, sembra ci sia un cambiamento nella percezione dei banchieri centrali relativamente al concetto di “temporaneità” della fiammata inflattiva, una temporaneità da sempre sostenuta dalle principali Banche centrali.
Le dichiarazioni di Jerome Powell
A tale riguardo, il governatore della Fed, Jerome Powell, ha dichiarato espressamente durante la conferenza stampa dell’ultimo FOMC che “l’inflazione appare più persistente” del previsto e che il rischio di una spirale inflazione-salari sembra più forte delle attese, così che la Fed ha deciso di agire un po’ prima del previsto nel restringere la sua stance di politica monetaria. Anche la Bank of England sembra essersi ricreduta sulla natura temporanea dell’inflazione osservata nel Regno Unito, tanto che nella sua ultima riunione ha previsto un aumento significativo dell’inflazione, che ritiene destinata a permanere nel sistema economico più a lungo del previsto, per essere precisi al di sopra del +4,0% per la maggior parte del 2022.
Una dichiarazione, questa, che è stata interpretata da molti analisti come una sorta di avvertimento dato ai mercati sul fatto che il primo rialzo dei tassi d’interesse potrebbe avvenire all’inizio del 2022, nello stesso anno in cui ci sarà anche il primo rialzo dei fed funds. La Banca Centrale Europea dovrebbe, quindi, essere l’ultima Banca centrale, in ordine di tempo, ad alzare i tassi d’interesse. Questo avverrà probabilmente nel 2023. Una scelta, questa, che rischia di provocare un eccessivo surriscaldamento dei prezzi e del credito, considerando che si pone in disallineamento con quelle delle altre principali Banche centrali.
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